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Ci sono tanti modi per parlare di sé, anche se forse nessuno, in fondo, è completamente obiettivo. Ho scelto di raccontarmi in un impeto, con i pregi – di spontaneità – e i difetti – di completezza – che ciò comporta. Sono sicuro che il lettore che avrà la pazienza di giungere sino in fondo apprezzerà quelli e perdonerà questi.

 

La mia famiglia è stata protagonista di una strana storia di emigrazione al contrario: avevo tre anni quando ho lasciato Roma, diretto verso la Calabria, dove entrambi i miei genitori erano nati.

Mio padre, però, salvo brevi ritorni festivi, era andato via nel 1935, proprio mentre mia madre nasceva; aveva vissuto un po’ a Napoli, per poi trasferirsi definitivamente a Roma. Erano anni di autarchia e di guerra, c’erano sacrifici da sopportare e difficoltà da affrontare: portava nel cuore Soriano, il piccolo paese, dove era nato all’ombra di un convento domenicano, ma si era innamorato della Capitale e lo sarebbe restato fino alla fine. In fondo, non riusciva a sentirsi veramente calabrese.

Io sono nato a metà degli anni ’70, quando l’Italia – e Roma soprattutto – erano strette nella morsa del terrorismo e, per certi versi, ancora incapaci di reagire. Dopo tanti anni di sindacato, mio padre era tornato ad insegnare storia e filosofia in un liceo di una borgata romana, dove la politica e la sinistra extraparlamentare – allora così si chiamava – non erano uno scherzo. I suoi studenti apprezzavano il cuore grande che aveva e lo stimavano per quel rapporto anticonvenzionale che aveva. Ma quel clima gli piaceva poco, adesso che aveva famiglia e un bimbo piccolo.

Così, caricata di vestiti e giocattoli la Simca 1000 bianca, ci siamo trasferiti a Vibo Valentia, perché potessi di crescere lontano dai pericoli e dalle tensioni di una grande città in fermento.

Di quegli anni ho due ricordi indelebili: il giorno del trasloco e, un anno più tardi, gli occhi di mio padre sbarrati, mentre dal piccolo televisore arancione, Vittorio Citterich raccontava del rapimento di Moro e dell’uccisione della sua scorta.

Il resto appartiene alla quotidianità, e certo per un bambino non è facile cambiare città: conosco i parenti di parte materna, nuovi piccoli amici e vivo in una casa diversa. Le giostre ci sono solo in alcuni periodi dell’anno, ma il parco delle rimembranze – con le targhette ormai arrugginite attaccate sui tronchi e i cespugli fitti e profumati di rosmarino – non è poi così diverso, almeno ai miei occhi, dal colle Oppio.

Appena in Calabria, nelle sere di inverno, mio padre mi insegna a leggere e scrivere, copiando le lettere dell’Odissea. Ho da poco compiuto tre anni e riempio foglietti bianchi di carta velina con segni sicuri. In stampatello, naturalmente. Quando arrivo a scuola, prima ancora di compiere cinque anni, guardo la maestra con perplessità: quella “a” tondeggiante con la zampetta non può che essere un suo errore. Quanta fatica per imparare a scrivere in caratteri corsivi! E da mia madre, maestra, assorbo una giustizia sociale e una solidarietà da libro Cuore.

Vibo Valentia ha i pregi e i difetti di una piccola città del sud degli anni ‘80: non ha velleità notturne e nemmeno troppi pericoli, a patto di sapersi guardare. Il tempo libero lo si passa con un pallone in strada, in palestra o con gli amici e anche con il motorino raramente ci si allontana dal centro abitato.

Non è ancora l’epoca dei computer – anche se da ragazzo avevo avuto un vic20 – e dei telefonini: si gioca a monopoli, a Risiko o alla battaglia navale e, solo nel periodo natalizio, a carte, talvolta con qualche moneta.

Gli anni del liceo sono i più belli: le prime esperienze, le prime libertà e – perché no? – i primi problemi. Il carattere timido e riservato sino all’eccesso lascia spazio ad una certa irrequietezza, più per necessità che per indole; le prime assemblee a scuola, gli amici e sempre più tempo trascorso fuori casa. Qualche incidente – per lo più banale – in motorino aiuta a crescere. D’estate ci si trasferisce sul litorale tra Bivona e Tropea che il turismo di massa sta rapidamente trasformando.

Sui libri non ho mai passato le nottate. Anzi. Ma una certa vivacità culturale mi consente di raggiungere risultati eccellenti.

Qualche problema in più quando c’è da scrivere: ordinare i pensieri su un foglio di carta rimane un’opera improba. Mio padre aspetta sereno: sa che le tante letture non possono che dare frutti. L’incubo del foglio bianco lo supero intorno a sedici anni e scopro, quasi d’un tratto, durante un compito in classe sulla prima guerra del Golfo, che posso giocare con le parole. Poi vengono i primi articoli di giornale e, nel 1991, il primo premio letterario.

L’ultimo anno di liceo è ricco di scioperi, assemblee e assenze più o meno (in)giustificate: ma anche quello serve a crescere; persino la maturità vivo con irrequieta incoscienza. Con Antonio Scuticchio, l’Amico di sempre, condivido sogni e aspettative.

Giurisprudenza a Roma, alla LUISS è figlia degli incoraggiamenti di mio padre. Se ritornassi indietro, farei la stessa scelta, anche se una laurea in lettere mi sarebbe piaciuta. In ogni caso, c’era un risvolto pratico e, comunque, pensavo che non sarebbero mancate le occasioni per fare il giornalista. Forse avrei dovuto crederci di più.

Non ho ancora compiuto diciotto anni e torno a vivere dove sono nato. La solitudine e gli affetti lontani si fanno sentire e la Città si mostra inutilmente dispersiva. Non c’è nulla di eclatante in quel primo anno a Roma, ma i risultati in università sono ben al di sotto delle mie aspettative. E – peggio – non migliorano nemmeno nei due anni successivi.

Una Mini Rover mkVI, verde inglese, con il tetto panoramico di tela, è la mia prima auto: ancora oggi – dopo un profondo reatauro – la conservo con la cura di allora.

Nel frattempo, mi sono lasciato sedurre da Roma, o, meglio, me ne sono innamorato come se fosse una baldracca: nutro tenera passione quando la guardo negli occhi e le serbo disprezzo quando ne osservo le brutture. Il traffico, le distanze, la mancanza di una identità civica fanno da contraltare alle bellezze architettoniche, al fascino dei vicoli, al profumo di storia. In ogni caso, ormai, è casa mia: sarebbe difficile tornare a vivere in una cittadina di 20.000 abitanti.

La storia diventa la compagna appassionata delle mie letture, soprattutto quella contemporanea; la letteratura riempie qualche spazio, ma solo i classici: agli autori più recenti che scrivono senza l’uso di congiuntivi e punteggiatura non riesco ad abituarmi. D’Annunzio, Pirandello, Montanelli, Solženicyn, Lessing: la casa si riempie rapidamente di libri.

Il quarto anno di università lo affronto con la determinazione di laurearmi: tredici esami sostenuti uno dietro l’altro e la tesi. Abbastanza per un anno accademico. La laurea arriva a ventidue anni, in corso e in maniera inaspettata.

Poi, una borsa di studio della ESE per la Scuola di Liberalismo 1998 accompagna i miei primi mesi da laureato: l’elaborato finale affronta la tematica dei limiti impliciti all’esercizio del potere costituente con riferimento alla riforma della bicamerale D’Alema che tante attese stava suscitando, dopo gli anni di tangentopoli.

Mi dedico con intensità alla collaborazione con la cattedra di diritto delle comunicazioni della facoltà di giurisprudenza della LUISS e intanto completo la pratica forense.

L’esame da avvocato, nonostante la tensione, è quasi una formalità. Il ricordo più bello è l’abbraccio di mio padre. E la libera professione non è avara di soddisfazione. Su incarico del Consiglio dell’ordine degli avvocati di Roma, realizzo il restyling della rivista Temi Romana e ne assumo le funzioni di capo redattore.

Scelgo, però, un percorso differente di carriera – e di vita –: lo start up dell’ufficio legale in LUISS mi offre la possibilità di fare un lavoro che mi piace, senza le incertezze della libera professione. I successi nell’ambito delle relazioni industriali, l’ottimizzazione delle risorse, la completa padronanza delle tecniche negoziali e la riconosciuta competenza tecnica fanno crescere Il ruolo e lo consolidano, tanto che mi viene assegnata la responsabilità dell’area legale.

Intanto, dopo una lunga malattia che lo aveva strappato alla vita attimo dopo attimo, un giorno di novembre del 2004 aveva portato via mio Padre. L’ho pianto in silenzio: sapevo che nulla sarebbe stato come prima.

Nonostante il poco tempo libero, la storia, intanto, diventa qualcosa in più di una semplice passione e le ricerche sull’emigrazione d’elite nel risorgimento italiano catalizzano molto del mio tempo, fino a strapparlo al sonno. L’individuazione del luogo in cui è sepolta Rosa Garibaldi, secondogenita di Giuseppe e Anita Garibaldi costituisce una soddisfazione importante.

L’uso fluente del portoghese e dello spagnolo – che, oltre all’inglese studiato a scuola e in Inghilterra, ho imparato da autodidatta – si rivela indispensabile per le mie ricerche.

Un concorso in Sardegna mi restituisce la voglia di scrivere. Vinco il premio Giuseppe Garibaldi – Città di La Maddalena nel 2007 con il racconto Uno strappo sui ricordi. L’anno successivo confermo il risultato con La gabbana del Tetavach.

Comincio a riempire di appunti taccuini piccoli e neri che porto sempre con me.

Nel 2010 il racconto Adua vince il primo premio del concorso letterario Roma, prova a scriverla e, dopo oltre un anno di pigrizie e tentativi, decido che è finalmente giunta l’ora di pubblicare questo sito.

 

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